Il Civile di Brescia – Una struttura e la sua storia come momento di svolta della sanità bresciana – 4 parte: Lavorare in Ospedale fra le due guerre
Una medicina che appartiene al passato certo, ma che fa parte integrante della tradizione medica bresciana e da cui derivano traguardi e quotidianità del dopoguerra.
Così la ricorda l’anziano medico Gianfranco Levi, che lavorò a lungo nel vecchio ospedale cittadino:
“Chi faceva la guardia notturna, a rotazione, non era esentato dalla presenza il giorno successivo alle visite col primario. Capivi poi, se restavi un anno o due come assistente, che la tua considerazione era aumentata non solamente perché potevi ordinare alla suora di mettere i cataplasmi o fare clisteri. Cominciavi a dire la tua opinione, dovevi compiere conteggi e fare i pochi esami di laboratorio che allora si compivano. E magari però ancora non guadagnavi, lo facevi volontariamente. A volte le conoscenze mediche facevano compiere scelte che oggi farebbero inorridire. Basti pensare che negli anni fra le due guerre nell’ospedale di Brescia c’era un solo medico assistente che arrivava a 90-95 malati, di cui la metà almeno erano tifosi, ora c’e’ un medico ogni 10 malati. Quando arrivarono gli anglo americani, il militare inglese responsabile della sanità voleva denunciarci tutti. Era per lui inconcepibile, di qua i tifosi di là gli altri. Eravamo a volte talmente stanchi che suor Fedele, santa donna, per risparmiarci la levata notturna, ci portava in camera i malati da visitare senza scomodarci ancora”.
“Ogni medico era una persona che contava anche dal punto di vista amicale, affettivo. Per non parlare del primario, visto da tutti come amico. Ma nel suo reparto faceva letteralmente quello che voleva, sorretto però dalla stima di tutti e da un’etica non comune. Non doveva domandare, e contava anche dal punto di vista amministrativo. Non era spesso necessario chiedere preventivi permessi agli amministratori, che forse contavano meno di ora, ma si fidavano a ragione del loro operato”.
Ricordi che non cambiano di molto per il dottor Luciano Lombardo, cresciuto professionalmente con la figura del primario Pietrantoni, figura che incontreremo spesso nei capitoli seguenti:
“Prima eravamo sistemati in qualche modo nel vecchio ospedale. Però si faceva tutto, interventi anche di alta chirurgia, soprattutto dopo l’arrivo di Pietrantoni, che stupì tutti perché nessuno aveva mai fatto quelle cose prima di lui. Di “ferri del mestiere” ne avevamo a sufficienza, l’attrezzatura chirurgica era di prim’ordine, forse non altrettanto le stanze adibite al ricovero. Ricordo di colleghi di altri ospedali che, durante gli incontri a convegni, ci invidiavano Brescia e il suo ospedale”.
Il 5 marzo 1951, data della prima degenza nel nuovo ospedale, rappresenta anche la data di nascita della moderna medicina bresciana.
Nel nuovo ospedale, la medicina diventa moderna
Cambiare mura, trasferire e migliorare le attrezzature fu certamente evento auspicato a più riprese da primari e da medici bresciani. Lo stesso presidente Guido Amadoni, in carica dal 1930, non aveva -come visto- lesinato i propri sforzi per portare a compimento l’opera.
Certo lui come buona parte dei medici bresciani, dovette adeguarsi ai tempi, indulgere a cerimoniosità tipiche dell’epoca fascista (come la cerimonia di posa della prima pietra), ma la sua preparazione era indiscutibile e soprattutto ben saldo era l’intendimento irrinunciabile: dare a Brescia un nuovo ospedale, che senza troppi compromessi di carattere urbanistico o sociale, fornisse una risposta di largo respiro e di inciviltà ai fabbisogni della medicina bresciana.
Guido Amadoni, primario chirurgo dell’ospedale
Nato a Soncino l’8 aprile 1876, l’Amadoni fu primario chirurgo presso l’ospedale bresciano. Vi era approdato nell’anno 1906 al seguito del prof. Giovanni Mori, avendo studiato precedentemente a Parma ed a Firenze.
L’epurazione che seguì nel 1945 non potè evitare di sottrargli la presidenza, reo senza colpe se non di adeguamenti imposti per poter lavorare e forse con la colpa di aver dato il nuovo ospedale a Brescia, ma non è un caso anche negli anni successivi fu spesso al Civile e invitato senza ambiguità alle più significative cerimonie degli anni del dopoguerra.
Ma l’aspetto medico ed umano appare altrettanto significativo e di necessaria conoscenza almeno quanto quello edilizio e urbanistico, per comprendere meno superficialmente le vicende legate al nuovo ospedale.
Non se lo nascondeva anche il nuovo presidente del Civile, Mario Marchetti. Nella giornata inaugurale così ricordava lo spirito mai taciuto, (e la stessa brescianità orgogliosa) di un traguardo faticosamente raggiunto:
“Non si può partecipare”, dichiarava il presidente nel 1951, “non si può nemmeno assistere a questa cerimonia senza viva, profonda commozione. Direi quasi senza quel vago senso di smarrimento che da tutto ciò che è grande e che appunto perché tale, fa maggiormente pensare e sentire la piccolezza di noi uomini. E tanto più cara è questa suggestiva cerimonia, in quanto essa si svolge senza alcuna esteriorità, senza alcuna forma solenne, così semplicemente, nella più rigorosa intimità della grande famiglia ospedaliera bresciana. Ancorché le mie parole vi trovino consenzienti e abbiano risonanza nel vostro cuore, non accogliete il mio dire con un applauso; non turbiamo l’austerità e la serenità di quest’ora con le manifestazioni d’uso; non applaudite vi prego. Ascoltiamo in silenzio la voce vicina e lontana di coloro che stanno per entrare, di coloro che entreranno nei prossimi giorni, nei prossimi anni, chissà per quanti, la voce confusa ed indistinta dell’umanità che soffre e chiede aiuto al fratello di lui più fortunato, quella voce che non può essere ascoltata se non con un senso di religioso raccoglimento. A questa porta che oggi si apre per la prima volta per non chiudersi più, nessuno dovrà mai bussare inutilmente”.
Parole che sembrano risuonare lontane anni luce davvero, ma pronunciate con sincerità.