[vc_row][vc_column][vc_column_text]Continua da “Medicina e sanità bresciana del secondo Novecento: l’Istituto del radio e la lotta ai tumori”. Clicca qui per leggere l’articolo.

Contro il male del secolo

La questione dell’autonomia dell’Istituto del Radio, intesa nelle specificazioni gestionali che chiariremo più avanti, rappresenta -non solo per Brescia- una novità. Una sorta di innovazione che poneva Brescia alla testa di una ideale classifica di lungimiranza. Una classifica nella lotta ad un male che di lì a breve balzerà all’attenzione dell’opinione pubblica divenendo nell’immaginario collettivo e nella quotidianità come la frontiera  con cui confrontare le possibilità umane e le sue forze.

 

Un Istituto del Radio quindi dotato di piena autonomia, per rispondere in maniera veramente efficace agli scopi per il quale era stato creato. Come per i normali reparti si esigevano stretti rapporti fra sale operatorie e servizi annessi e reparti di degenza, così per l’Istituto del Radio appariva necessario garantire legami funzionali fra sale di degenza e sale in cui si compivano le cure radiologiche, mentre occorreva operare in piena sicurezza, ovvero con attenzioni particolari alle manipolazioni dei materiali radioattivi ed alle loro applicazioni curative.

Così a Brescia l’Istituto viene pensato mantenendo da un lato il reparto di degenza e le sale di applicazione e dall’altro per raccogliere in un locale per la medicina sotterraneo -adeguatamente protetto ma collegato-  gli impianti di alta energia ed i servizi annessi: il Centro Alte Energie.

Negli anni Sessanta

Nei suoi primi anni di vita l’Istituto Olindo Alberti disponeva di due sale di degenza per 120 posti letto. Le due sale erano collegate al centro da un braccio trasversale in cui si trovavano collocati i locali di deposito e manipolazione dei preparati radioattivi, la sala di roentgenterapia e di plesioterapia.

 

I documenti del tempo chiariscono tutte le cure con cui quel materiale pericoloso venisse trattato e custodito in tempi in cui la tecnica doveva ancora proporre soluzioni più sicure. I preparati radioattivi, spiegava una nota del 1964,

 

sono custoditi in due casseforti ed in un contenitore di preparati radiferi. Le casseforti sono sistemate entro lo spessore di un grosso muro maestro in mattoni pieni; i preparati radioattivi sono suddivisi, per ogni cassaforte, in 12 cassetti ognuno dei quali può contenere sino a 100 mg di radium o di altre sostanze. I cassetti sono costituiti da cilindri di piombo rivestiti di metallo duro, inossidabili /…/ ogni cassetto può venir estratto dalla cassaforte a mezzo di una apposita pinza forgiata a pistola, che consente di mantenere a distanza i preparati radioattivi”.

 

Accorgimenti che oggigiorno possono apparire insufficienti a garantire la massima sicurezza. Un tempo però era quanto di possibile predisporre.

 

L’attrezzatura delle sale di roentgenterapia e plesioterapia in quegli stessi anni era rappresentata in pratica da sole due macchine: un monoblocco da 230 kV 12 mA per irradiare malati degenti a letto e un impianto Monopan Siemens con tubi ad anodo obliquo ed a punta. Le sale erano protette da una parete di barite dello spessore equivalente a 3 mm di piombo.

La sicurezza

La questione sicurezza restava il punto qualificante, anche se spesso di difficile soluzione ottimale, per la vita dell’istituto. La ricerca della massima utilità per il paziente doveva trovare un giusto equilibrio con la sicurezza degli operatori e dei medici. Per le sale di terapia la protezione risultava in quei primi anni di attività sufficientemente garantita, con statistiche che stimavano in una esposizione per i medici pari a 0,1 rem la settimana.

Meno protette risultavano però, per ammissione degli stessi Spedali Civili, le sale di applicazione del radium, con emissioni nelle sale e corridoi circostanti di circa 1-2 mr all’ora. Davvero un equilibrio difficile da raggiungere in medicina. Soprattutto quando la frontiera della cura radiologica sembrava l’unica percorribile nei primi anni di lotta al cancro.

 

Gli ammalati ai quali veniva applicato il radium o le perle di cobalto, nel corso della degenza venivano tenuti in sale separate. Ma ciò non era sempre possibile. Così scriveva il primario Mauro Piemonte nel 1964:

 

Purtroppo l’alto numero dei ricoverati impedisce a volte di adottare questa misura precauzionale ed i malati con o senza radium risultano mescolati magari in maniera rispondente alle necessità cliniche ma non soddisfacente dal punto di vista proteximetro”.

 

Un problema che verrà risolto con l’ampliamento degli spazi destinati all’istituto del Radio a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.

 

Leggi anche:
La storia di Avis. I meriti dei pionieri della medicina, dalle origini al periodo postbellico fino ai giorni nostri. Il difficile percorso di Avis nelle parole del prof. Mario Zorzi. Leggi l’articolo, clicca qui.

Condividi questo articolo!

Ultimi articoli