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Pubblichiamo l’ultimo capitolo della rubrica di Goccia Magazine sulla storia della trasfusione a Brescia e di Avis. Segue da “Prove di trasfusione a Brescia nel 1875“.
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Gli strumenti per le prime trasfusioni a Brescia

Gli strumenti utilizzati per le prime prove di trasfusioni bresciane erano stati acquistati direttamente dal primario del manicomio Manzini, “parte a Bologna, parte a Milano e comunque logori”. Per i nuovi strumenti però si rivela necessario uno stanziamento di 150 lire. Sono anche indicati gli artigiani della città pronti a provvedere al bisogno, un certo Mafezzoli, tornitore, ed un artigiano delle forbici Fugini, entrambi intenzionati e disposti a fornire l’attrezzatura medica necessaria.

Ma in che cosa consistono questi strumenti per le trasfusioni di quasi un secolo e mezzo fa?

“Sono una pompa, vari aghi cavi e cannule, mandrini, una sonda scannellata, due forbici, due bisturi, due pinzette e tubi di guttaperca, una cannetta per l’animale, un imbavaglio e un morso di ferro che serve ad immobilizzare il di lui capo, un termometro ascellare”.

 

L’ospedale acquista gli strumenti richiesti, inviando anche “i più vivi e sentiti ringraziamenti per la lodevole iniziativa e continuata direzione dei predetti esperimenti”. I due dottori bresciani Manzini e Rodolfi avevano riflettuto a lungo circa le modalità e la strumentazione con le quali effettuare le operazioni di trasfusione. In un primo tempo si trattò di individuare il metodo più semplice e che contemporaneamente “fosse pronto e costituito in modo da non permettere che il sangue avesse a subire l’impressione dell’aria atmosferica, e non avesse a perdere le sue facoltà fisiche vitali”.

Così si sperimenta un involucro rotondo di gomma elastica, dal quale si fanno dipartire due tubicini elastici in senso opposto, uno destinato a ricevere il sangue trasfondente, l’altro per avviarlo alla vena del ricevente. Ma ci si accorge che, pur somigliando la modalità allo stesso funzionamento del cuore, in realtà non emenda dal possibile, deleterio passaggio di bolle d’aria. Così al palloncino di gomma si sostituisce una pompa in avorio con due becchi dalla quale far partire i due tubicini. L’assistente preme con due dita alternativamente i due tubicini imprimendo così la giusta direzione al sangue.

 

Ma dopo qualche trasfusione il metodo si rivela eccessivamente complesso. Così si prova con una “pompa in vetro finita in metallo dorato” e un rubinetto in grado di aprire i due becchi alternativamente. Il rubinetto viene poi modificato ed seguito sarà mostrato anche in alcuni congressi nazionali di medicina.

Cenni biografici del dr. Rodolfo Rodolfi ed il lascito dei due medici bresciani

Le modalità delle trasfusioni sono narrate con pazienza nella relazione stesa dal dr. Rodolfo Rodolfi. Qui il dottore spiega con attenzione i vari passaggi da braccia a braccia. Sino al successo completo. Il Rodolfi è uno scienziato che molto ha dato alla medicina bresciana ottocentesca. Nato a Bogliaco, sul lago di Garda, nell’anno 1827, dopo aver partecipato alle Dieci Giornate di Brescia ed all’assistenza ai feriti nella II Guerra di Indipendenza del 1859, diviene primario chirurgo presso l’Ospedale di Brescia. In seguito sarà assessore comunale all’igiene e fondatore della clinica privata Casa Moro. Sua è fra l’altro la prima iniezione endovenosa compiuta in Italia nell’anno 1874.

 

Il dr. Rodolfo Rodolfi muore a Brescia il 27 maggio 1896, mentre il dottor Manzini morirà a Brescia il 24 ottobre 1899. Un paio di anni dopo, nel 1901, il viennese K. Landsteiner dimostrerà la possibilità di procedere senza pericolo a trasfusioni di sangue osservando la corrispondenza fra gruppi sanguigni compatibili, che lui stesso aveva scoperto l’anno precedente e che gli procureranno il Premio Nobel.

 

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